ORNAMENTI DEL BUIO
Marco di Capua
“Il rosso era il tuo colore./ Se non il rosso,il bianco.Ma il
rosso/ era quello di cui ti avvolgevi./ Rosso sangue.Era
sangue?/ (…) Quando riuscisti finalmente a fare a modo
tuo/ la nostra stanza fu rossa.Una camera di giudizio./
Scrigno chiuso per pietre preziose(...)/E fuori della finestra
/papaveri sottili,rugosi e fragili/come la pelle sul sangue...”.
(Ted Hughes,Lettere di compleanno).
Poiché durante un'estate siciliana di alcuni decenni fa,di rose non se ne trovano abbastanza,Luchino Visconti,alle prese con il ballo del Gattopardo,se le faceva direttamente arrivare tutte le mattine in aereo da San Remo.Suprema prova di verità sulla scena: tutto,ogni dettaglio doveva essere autentico.
Un intenso profumo di fiori, percepito dagli attori,avrebbe fatto recitare in modo diverso,avrebbe fatto recitare meglio.Gli ipertrofici bouquets di Carlo Ferrari,di questo esteta di fine-novecento e inizio-millennio,li appoggi volentieri a quello sfondo di lusso materialmente cercato, così sontuosamente esibito, che di istinto ti viene in mente a controcanto dei flowers di Warhol e di quelli di Mappelthorpe. Contese tra decadenti: fiori italiani contro fiori americani? Il senso di opere come tessute a mano, sistemi linfatici per vite nascoste, contro il trionfo dell'artificio?
Eppure quanto diversa questa maestosa apertura notturna di ali rosse, com'è lontano questo scuro presagio del volo anche dalla tradizione del sommo Morandi o di certi amati” classici minori” del nostro '900, dal domestico, rattristato patetismo di floricultori accaniti come Mario Maffai. O come Filippo De Pisis: “...Di lontano,da un angolo in penombra, io posavo di tanto in tanto lo sguardo su quei fiori, un garofano rosso vivo dal lungo stelo si sbilanciava nell'aria con una specie di tic nervoso, un mazzo di piccoli astri bianchi eran come molluschi fragili,fantasie leggere. Il vaso proiettava sulla tovaglia bianca un'ombra delicatissima. Non mi stancavo di guardare e di pensare ai tratti che su un foglio bianco avrebbero potuto fissare un po' della grazia, della malinconia di questi fiori. E m'era venuta quasi voglia di piangere”. No, non ci siamo proprio. Qui la pista da seguire senza avvilimento è un'altra. Non spremiture di essenze, sgocciolate sempre per difetto, ma una presenza vera, sicura di sé, silenziosa, osservata mentre si espande e si moltiplica per una specie di oscura, inarrestabile germinazione timbrica e cromatica.
Ti torna allora in mente, per esempio, l'opera di quello straordinario pittore americano convertito all'Italia, Randall Morgan (chi lo ricorda mai, al giro delle mode e delle voghe più ripugnanti e ignoranti? chi lo nomina più? )e quella sua luminosa ricerca di un assoluto pierfrancescano e moderno, che, in un ipotetico confronto, sembrerebbe sottoporre il mondo di Ferrari alle chiare regole di un regime diurno.
“Una rosa è una rosa è una rosa...” ha detto Gertrude Stein. Del fiore si può solo ripetere il nome, fino allo sfinimento di ogni alone simbolico. D'altra parte pittori coincidenti con un solo segno, con una sola immagine, ne abbiamo avuti. A schiere. L'artista moderno si reclude volentieri con il suo soggetto preferito. Disdegna la variabilità, ma ama la variazione sul tema. Compone delle serie. Non può rappresentare tutto. Vagare con lo sguardo, disancorare l'attenzione sarebbe da lui visto con sospetto. Questo tipo di artista opera attingendo la propria salvezza dal reiterato perfezionamento della sua opera. Così Ferrari, a furia di ripetere lo stesso soggetto allenta la catena delle analogie, delle imitazioni. Una specie di ottenebramento, di contrazione dell'immaginazione potenzia l'immagine. Materia , luce, colore tentano qui di dire, all'unisono, la stessa parola. Tra l'Io che si esprime e un mondo assediante si insedia un suono pieno, appena modulato, come una nota musicale tenuta a lungo...
Sono dunque dentro una figurazione eccezionalmente astratta? Sarebbe lo stesso paradosso che qualifica così bene anche l'opera di Luciano Ventrone. Solo che per quest'ultimo il tema di fondo resta la realtà, una sua intensificazione proiettata. Per Ferrari l'ossessione, riguarda il colore. Anzi un colore, emanato. “I, porpora, rigurgito di sangue, labbra pelle/ che ridono di collera, di ebrezza penitente”, scriveva Rimbaud associando le vocali ai colori, e questi, slittando sulla scivolosa superficie dei linguaggi, a una serie di immagini. Nei quadri che ho sott'occhio – veri e propri colori dipinti, e non dipinti con i colori – il rosso è un rosso sovrassaturo, sfarzoso, violento, indifferente alla propria stessa solitudine, l'apice del rosso, proprio non so se rubino o scarlatto, rosso drogato, colore che sembra stordirti come uno stupefacente assunto per via retinica ( non è forse dai papaveri che si estrae l'oppio? ),sontuosa sostanza di veri Fiori del Male, o, come ancora direbbe Baudelaire quasi che qui si sia davvero sfondato il petto di qualcuno, di cuori messi a nudo.
Di solito i fiori stanno li, buoni e fermi. Di essi potresti dire di tutto, ed è stato detto: che patiscono, che sentono, che respirano. Mai sentito dire che vedono. La cecità sembra essere la condizione inalterabile del mondo vegetale. Vivente di luce, ad esso è precluso l'organo che per definizione la percepisce, la vista. E' come se agisse nel buio, è solo una mia sensazione quella di trovarmi di fronte ad occhi stracarichi di trucco, pupille trafiggenti, curiose di noi, palpebre pesantemente levate? In genere uno i fiori li guarda, non è mica, così intenzionalmente, guardato...
Roma, Gennaio 2001 Marco di Capua
Significato di un fiore
Franco Basile
La natura,dicevano i greci,gioca:e giocando assume tutte le forme e i colori che nemmeno la più fervida delle immaginazioni può prevedere.Per cui non vi sarebbe che metamorfosi infinita nelle manifestazioni che attraversano il mondo.
All’improvviso potrebbe uscire dal mare un’isola,il nero più desolato e sinistro potrebbe di colpo dipanare in superficie il rosso che si era celato nel cuore di un grande fuoco,un’area verdeggiante potrebbe scomparire e far posto a una plaga desertica.Carlo Ferrari è un acuto osservatore delle cose che lo attorniano denunciando,nella sua scrittura,un’attenzione molecolare della realtà.
In ciò che gli è prossimo individua un’affascinante direttrice di ricerca,svolge una relazione accurata di una determinata visione della natura senza però perdersi in troppi rivoli incantatori.
Anzi,il suo lavoro è la risultante di un approfondimento dettagliato di pochi elementi tematici,essenziali motivi da cui trarre spunto per stabilire,in queste realtà mutevoli,punti fermi del pensiero,un blocca-immagine compositivo da cui impostare il proprio discorso e rapprendere con il pigmento un’espressione della natura altrimenti destinata alla consunzione.
La vita di Ferrari veste i colori di una suggestione che,nell’analisi acuta dei pochi modelli che lo interessano,sembra non aver fine,come una voce prolungata capace di determinare atmosfere in armonia con il carattere di una visione chiamata fiore. Rosso,nero,toni dell’immediato o indici che escono dal labirinto delle pulsioni oniriche,tratti di colore che dilatano e prolungano l’alone psichico che accompagna il gesto. Petali satinati o carnosi,vividi o sottoposti alla libertà vigilata di un ricordo,trasparenze che si alternano a contesti dai segni erotico-aggressivi,luci che si posano sull’immagine formando un soprassalto riflessivo.
Il fiore per Ferrari non è una semplice circostanza della natura,ma qualcosa di emblematico,un valore aggiunto alla meraviglia ,una forma devozionale che,in fondo,è vocazione poetica,e ogni tocco di pennello è un codicillo applicato alla realtà,un “io”narrante che fa della suggestione nuovo stimolo percettivo.
La casa di Ferrari è in un punto da cui si può spaziare sulla pianura da un lato,e su un parco comunale dall’altro.L’interesse dell’artista sembra propendere per la visione estensiva,quella che abbraccia,in tutti i suoi dettagli,il trapasso delle stagioni.Dalla finestra l’occhio prende la rincorsa per correre fin dove gli spazi tra frontiera vicina e lontana si fondono per formare gli accenti dell’evocazione.D’estate si possono analizzare i colori e le ombre,d’inverno la nebbia trasforma alberi e case in apparenze della vita,la neve rende la campagna una propaggine di pianura vetrificata. Il pittore prende atto di tutto ciò,lo vediamo con l’occhio dietro la finestra riprendere brani di natura appena smossa da un vento che propone nuove versioni. Pensiamo allora,chissà perché,all’allegoria del vecchio poeta che affidava la propria vista a uno stormo di uccelli che volteggiava per ore ed ore su un campo alla ricerca di un fiore che non c’era. I fiori di Ferrari invece esistono,sono il ferma-immagine di una realtà che,in definitiva,sembra venga presa in considerazione solo come complemento di un mondo fatto di petali.Per il pittore tutto sembra ruotare attorno a un papavero o a una calla.Pochi elementi,si diceva,una devozione che non intende tradire e che gli deriva in parte dai paesaggi che tratteggiava un tempo avendo in mente misure classiche oppure la magia di personaggi come Claude Lorrain.
Adesso il mondo si è fatto ancor più distratto e frettoloso,sono stati mortificati i colori e offuscato,con il giallognolo riflesso della luce irrazionale di città e paesi,lo spettacolo di un cielo stellato. Per questo,forse, Ferrari ha fatto di un petalo un mondo da esplorare organizzando l’immagine in silenzio,come per un cauto attraversamento della solitudine mentre il “gioco” della natura sembra aver perso i passaggi di una volta,condizionata com’è dall’uomo e da ciò che è stato geneticamente modificato.
…fiori come evocazione sensuale, papaveri e calle come pianeti staccati da un universo color fuoco,lastre di madreperla…..
C’è stato un tempo in cui Ferrari amava il sogno,al punto da sentirsi toccato dall’esercizio onirico.
E’ rimasto colpito in particolare dalle invenzioni di Dalì. Ma è stato un momento,come è stata una parentesi la passione per il paesaggio. Ha cancellato scorci campestri e cieli attraversati da nuvole.
Del paesaggio ha conservato solo certe manifestazioni,appunto i fiori,che in breve tempo sono diventati particolari,ingrandimenti rigonfiati su sfondi neutri,siderali: fiori come evocazione sensuale,papaveri e calle come pianeti staccati da un universo color fuoco,lastre di madreperla come un tono algido suggerito dalla luna.
Forse Ferrari ama ancora il sogno,quello che porta lontano e che si associa agli oppiacei tremendi di un elaboratore di fantasie come Odilon Redon, di cui evidentemente deve aver conosciuto la personalissima iconografia,parte della quale ispirata al pensiero del botanico Clavaud,l’uomo che rivelò al chimerico artista le meraviglie del microscopio. Ma Ferrari non analizza i fenomeni della vita col microscopio.Si limita a riprendere ciò che lo appassiona,mette in posa un fiore,ne studia simmetria e colore.Lo osserva da tutti i lati,lo depone su un tavolo o lo colloca in un vasetto,ne analizza striature e macchie,quasi a volersi provocare quell’emozione…,emozione che rivive ogni qualvolta sfila un’immagine dall’archivio dei pensieri.
Il fiore è materia trattata da un gran numero di artisti.C’è chi lo riprende subito,facendo un’istantanea del profumo e della brillantezza che potrebbero svanire da un momento all’altro.
Anche Morandi dipingeva fiori,facendone però una deriva del tempo e della natura. Tra le cose lasciate negli studi di via Fondazza e di Grizzana sono rimaste testimonianze di un interesse che non è stato pari a quello per le nature morte,ma che lo ha portato ugualmente a esiti di grande valore.
I fiori di Morandi erano memorie,quelli freschi facevano presto ad appassire. Li lasciava vicino a qualche oggetto,lasciava che l’aria e la polvere li trasformassero in qualcosa di assai diverso dalla comune visione di due o tre rose in un vaso. Ancora oggi si possono vedere fra i modelli delle nature morte. Alcuni sono di stoffa,con gli anni la polvere ha avuto ragione di tutto,anche del colore. Non hanno più un nome,forse non l’hanno mai avuto:sono una realtà di cui si è persa la memoria. Di essi resta l’incancellabile essenza traslata nei quadri,una nuova realtà che resiste nel tempo.
Nello studio di Ferrari la memoria ha la lucentezza di un petalo bagnato.Non sappiamo se il pittore custodisca esemplari di fiori secchi o di stoffa. Ne dubitiamo,il suo fare non implica affondi in un clima sospensivo come quello determinato da reperti dal sapore metafisico.
…..un’impronta personale,una lingua autonoma in grado di evitare
l’imbalsamatura ibernante del vero…..
Sono esili,quanto mai delicati i soggetti amati da Ferrari,che nel ritrarli usa mille precauzioni:il tempo rischia di farne malinconici residui di una realtà dall’intimità ferita. Come la figura di un cantore epico finisce per accompagnare la presa di conoscenza di queste espressioni naturali nel tempo di cento e cento pose,fino a prendere dimora fissa nella pittura.
Quali i referenti dell’artista,quali ascendenze? Interrogativi che fanno parte del rituale un pò stucchevole che accompagna l’analisi di ogni autore. Ferrari evita l’argomento,si sente libero dalle incrostazioni estetiche che accompagnano l’immagine di molti. Considera talune formulette da prontuario esegetico detriti mentali,come il volerlo consociare al linguaggio dell’iperrealismo. In effetti non ci sembra che la sua scrittura sia dettata da uno “scrupolo di diligenza tecnica” e nemmeno che le sue rappresentazioni tendano al semplice saggio virtuosistico. Sia nella stesura segnica,sia nella disposizione formale dei soggetti,i fiori di Ferrari denotano un’impronta personale,una lingua autonoma in grado di evitare l’imbalsamatura ibernante del vero.
I fiori non sono motivo di illusionismo mimetico,ma il tramite fra realtà e stupore,un modo esile e colorato per condurre Ferrari ad un rapporto sempre nuovo con la vita.
Bologna 2003 Franco Basile
VANITATES
Alberto Agazzani
Nel considerare la storia dell'arte spesso ci si dimentica che essa è innanzi tutto la proiezione della storia e delle vicende umane dei suoi protagonisti, di uomini e donne mortali che hanno vissuto cercando di vincere i limiti della loro natura e trasfuso in immagini destinate all'eternità il loro pensiero, le loro idee e le loro inquietudini anche e sopratutto in relazione al momento storico che andavano vivendo. Quando si pensa a Giotto, Leonardo, Michelangelo o Morandi si pensa alle opere, ai sublimi capolavori lasciatici e che ne documentano il genio. Raramente ci si sofferma sull'artista in quanto uomo e ad analizzare la sua vita in rapporto con la sua contemporaneità.Non bisogna mai dimenticare che tutta l'arte è, nel supremo e disperato tentativo di sconfiggere la morte, autobiografia, storia personale, vissuto.Si tratta della pù audace sfida contro sé stesso e, quindi, contro Dio in quanto eterno, in quanto idea suprema, in quanto creazione e perfezione, quindi negazione della natura dell'uomo stesso. Nel far ciò l'artista diventa anche il cronista silenzioso di un'epoca, il narratore sensibile di esperienze ed emozioni personali calate e rapportate alla contemporaneità e alle sue scoperte. Conquiste scientifiche come la prospettiva, la psicanalisi o la fotografia, ad esempio, sono scoperte rivoluzionarie che hanno modificato radicalmente i punti di vista e le idee di intere generazioni d'artisti. L'idea scientifica di realtà viene trasformata da Leonardo in arte sublime, in una concezione di arte che per la prima volta è genio puro prima ancora che mestiere. E cosi è accaduto per la prospettiva, un concetto matematico altrettanto legato ad un'epoca precisa, che per Masaccio, Masolino, Piero e tutti i pittori successivi rappresenterà la conquista di quell'idea di spazio destinata a segnare una delle tappe più importanti del pensiero umano. Nel XX secolo è indubbio che le principali rivoluzioni sono state provocate dalla psicanalisi di Freud e dall'innovazione della fotografia, con tutte le loro ben note conseguenze e degenerazioni. Le varie conquiste dell'Arte Povera, di Fluxus o della Video Art in genere, cosi importanti e innovative all'inizio, hanno dato origine ad accademie degenerate e degeneranti, senza fantasia né rigore , senza idee né particolari concetti da trasmettere se non quelle del facile arricchimento e della fama a tutti i costi.
Ma la fotografia, nel suo incontro con la grande tradizione pittorica del passato – ove per altro il concetto di camera ottica era già ben noto – ha dato origine ad un ricco filone di indagine artistica che, passando dalla fedele rappresentazione della realtà, ha cercato di scrutare, cogliere e rappresentare, al pari delle grandi opere del passato, il mistero del mondo e dei suoi moti. Sopratutto negli Stati Uniti, paese fino ad allora con una tradizione pittorica figlia dell'Europa, le potenzialità dei nuovi mezzi diventano primario strumento di analisi. L'iperrealismo degli anni “70 “ad esempio,si prefiggeva di rappresentare la realtà nella sua esattezza più assoluta attraverso la pittura, un linguaggio più vivo, caldo e personale rispetto alla fotografia. I celebri ritratti di Chuck Close o le vetrine trompe l'oeil di Rchard Estes, al pari delle sculture di John De Andrea e Duane Hanson, sono il felice e modernissimo risultato di un'idea fotografica della realtà unita ad un virtuosismo tecnico di assoluta eccellenza. In Europa l'idea americana di iperrealismo si arricchisce di connotazioni profonde e inquiete, diventando il punto di partenza per una nuova arte fortemente metafisica nel suo tentativo di trascendere la realtà attraverso la realtà stessa. Le opere di Antonio Lopez-Garcia o di Gianfranco Ferroni sono emblematiche di un realismo fotografico pregno di vivo coinvolgente e silenziosa inquietudine intellettuale. Anche le impressionanti vanitates di
Carlo Ferrari, piene di riferimenti a Caravaggio nella loro esasperata ricerca sulla luce, sono tra le più profonde e supreme dimostrazioni delle conseguenze europee dell'iperrealismo d'oltre oceano. Certamente figlio, artisticamente parlando, di Luciano Ventrone, ma fin dall'inizio indirizzato su vie di propria originalità, è Carlo Ferrari. Partito come infaticabile fisiologo dei grandi capolavori di Caravaggio, Velazquéz e Ribera,
Ferrari ha, nel corso di trent'anni di rigoroso esercizio e studio, conquistato una propria concezione di realismo nel quale lo spirito delle antiche vanitates si rinnova con prepotente potenza. Ferrari sa e ha ben capito che essere un pittore figurativo è impresa ardua e complessa. Dipingere e trasformare in proiezione mentale, utilizzando come simbolo o metafora, ciò che tutti conoscono e che hanno sotto gli occhi quotidianamente è quanto di più difficile un pittore possa proporsi. Basta un'imperfezione, un'ombra o una prospettiva sbagliate, un colore impuro o una minima distorsione per spezzare l'incantesimo e far crollare l'intera composizione.
Sopratutto quando la realtà intende alludere a qualcosa di irreale, quando gli oggetti rappresentati non intendono esprimersi in quanto tali, ma rinchiudere e comunicare valori, umori, stati d'animo, concetti e sensazioni solo e squisitamente umani. E' la difficile sfida che Ferrari si è posto con infaticabili volontà e umiltà: esprimere sensualità e misticismo, attraverso rappresentazioni iperrealistiche di fiori, grandi fiori, in vanitates che uniscono antica bellezza a contemporanee suggestioni.
Le composizioni di grandi papaveri, fluttuanti in spazi bui e senza dimensioni, non sono più soggetti di nature morte tradizionalmente intese, ma diventano qui i motori di eterne passioni, di scontri senza fine e senza memoria; la rappresentazione pittorica di sentimenti e contrasti che si agitano nell'uomo sin dagli albori della sua storia.
In questi dipinti protagonista assoluta è la luce, qui esasperata e ricercata in riflessi estremi e accecanti, in trasparenze carnose e sensuali, in ombre cariche di mistero e sacralità. E' la grande tradizione barocca che qui si ritrova e rinnova in una concezione allegorica e intellettuale dell'arte che trasforma e trascende la realtà, la domina, ingigantendola o riducendola, sempre trasfigurandola fuori dalle sue dimensioni. La realtà diventa allora un pretesto e viene elevata a metafora suprema di emozioni e stati d'animo senza tempo. Il tutto senza mai rinunciare alla bellezza, ad un'idea di bello che seduce l'osservatore nel suo essere metafora del divino; risultato misterioso e insondabile del genio umano nella sua dimensione più mistica e sensuale.
Alberto Agazzani
Reggio Emilia, Marzo 2000